No al licenziamento collettivo e per motivo oggettivo fino al 16 maggio

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Tra
le molteplici misure contenute nel decreto legge – cd. Cura Italia – 17 marzo
2020, n. 18, una in particolare merita di essere segnalata e approfondita, ed è
l’articolo 46 (Sospensione delle procedure di
impugnazione dei licenziamenti), che di fatto impedisce al datore di recedere
dal contratto con un licenziamento collettivo o per giustificato motivo
oggettivo. Si tratta di un provvedimento mai adottato prima, la cui ratio è di evitare (visti i gravissimi
impatti della crisi da coronavirus) che i datori, la cui attività è ferma o
ridotta all’osso, licenzino i dipendenti, rinunciando a fruire degli
ammortizzatori sociali ivi previsti.

In
pratica, dal 17 marzo al 16 maggio compresi, ossia per 60 giorni, il datore, quale che sia il
numero di dipendenti, non può recedere dal contratto per GMO ex art. 3, della
legge 15 luglio 1966, n. 604, o con un licenziamento collettivo ex lege n. 223/1991. Concentrandoci
sul recesso per “giustificato motivo oggettivo” con preavviso (vista la
prevalenza delle PMI), ricordiamo che, con tale termine si intende il recesso determinato da ragioni inerenti l’attività produttiva,
l’organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento.

Motivazione –
La ragione che giustifica il licenziamento, lungi dal dover consistere per
forza nella “crisi” dell’impresa (al contrario di ciò che spesso si pensa, non
è necessario un bilancio in rosso), deve coincidere con un motivo
“organizzativo”, che comporti la soppressione della mansione (o posto) sino a
quel momento svolta dal lavoratore da “espellere”: la Cassazione ha più volte affermato
che è compito del datore dimostrare non un ipotetico stato di crisi, ma solo che
si è proceduto al “riassetto” dell’impresa, per aumentare efficienza e
produttività. Va poi ricordato che l’art. 2 della legge n. 604/1966 dispone che
il datore deve comunicare per iscritto il
licenziamento al dipendente, specificando i motivi che lo hanno determinato.

Repêchage Prima recedere, il
datore deve “ragionare” sulla sua organizzazione complessiva e capire se, per
evitare la perdita del posto, non è possibile reperire un altro impiego,
offrendo al lavoratore “in esubero” una diversa mansione, in un’altra sede o
reparto, anche ove ciò comporti lo svolgimento di mansioni “inferiori”. L’art.
2103, co. 6, cod. civ., infatti, dispone che (in sede protetta o avanti alle commissioni di
certificazione) possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle
mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della
relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore a conservare l’occupazione
Durante tale procedura, il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante
dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, da un avvocato o
da un consulente del lavoro.

Violazione
dell’obbligo di repêchage
Almeno nei casi in cui si
applica l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, occorre ricordare il più
recente orientamento della Cassazione, secondo cui, poiché il giudice può
ordinare la reintegra ove accerti la “manifesta
insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo”, la “manifesta insussistenza” include la violazione dell’obbligo di repêchage, almeno qualora tale regime
sanzionatorio non si riveli eccessivamente oneroso per il datore di lavoro
(ricordiamo che, in caso di reintegra, il risarcimento va fino a 12 mensilità;
in assenza di reintegra, il danno risarcito al lavoratore oscilla tra 12 e 24
mensilità). Occorre dunque prestare molta attenzione a tale elemento.

Quando il recesso è per “GMO” – Vi sono varie disposizioni che consentono al datore di recedere per diversi motivi: nella tabella sono indicati alcuni casi particolari, specificando se essi costituiscono GMO, e quindi se è consentito o no il recesso prima del 16 maggio prossimo (se nella colonna “STOP” è indicato “NO”, il blocco del D.L. n. 18/2020 non opera).

Procedura in ITL – Vi
è un’ulteriore particolarità, che riguarda solo i datori più “grandi”, ossia
quelli con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel comune, o che ne hanno
più di 60 in tutta Italia (se non soggetti al contratto a tutele crescenti) in tale
ipotesi, l’art. 7 della legge n. 604/1966, dispone che il licenziamento per GMO deve essere preceduto da una comunicazione
effettuata dal datore all’Ispettorato Territoriale del Lavoro del luogo dove il
dipendente presta la sua opera, e trasmessa per conoscenza al lavoratore. La
violazione di tale procedura – peraltro anch’essa sospesa sino al 16 maggio
prossimo – comporta comunque il diritto del lavoratore, se il licenziamento per
motivo oggettivo è legittimo, a vedersi risarcire il danno con un’indennità che
va da 6 a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Revoca –
Il datore (entro 15 giorni da quando il dipendente l’ha impugnato) può revocare
il licenziamento: in tal caso dovrà pagare il periodo non lavorato ma non corre
il rischio di vedersi dichiarare illegittimo il licenziamento e di sborsare le
pesanti indennità previste per le singole ipotesi, il cui importo può arrivare
fino a 36 mensilità di retribuzione.

Nota Bene – Un’altra norma
che interessa i datori è l’art. 1 del
decreto legge 8 aprile 2020, n. 23. Ebbene, per assicurare liquidità alle
imprese con sede in Italia, colpite dall’epidemia COVID-19, diverse da banche e
altri soggetti autorizzati all’esercizio del credito, si stabilisce che SACE SpA,
rispettando le norme UE sugli aiuti di Stato e le condizioni dei co. da 2 a 11,
concede fino al 31 dicembre garanzie a favore di banche, istituzioni
finanziarie nazionali e internazionali e altri soggetti abilitati a esercitare
il credito, per finanziamenti sotto ogni forma alle imprese. Quel che si
evidenzia è che il co. 2, lett. l),
stabilisce che ”l’impresa che beneficia della garanzia assume l’impegno a
gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”. La norma pare
sottendere il fatto che l’impresa che accede a tali finanziamenti, si impegna –
in caso di eventuali esuberi (ossia in vista di futuri licenziamenti) – a un
previo confronto con la controparte sindacale, che dovrà necessariamente essere
coinvolta, eventualmente anche per reperire, in base ai singoli accordi,
soluzioni alternative, quali il ricorso alle integrazioni salariali, alle
riduzioni di orario, a esodi incentivati eccetera.

A cura di Alberto Bosco – Esperto di diritto del lavoro, Giuslavorista, Pubblicista de Il Sole24Ore. Consulente aziendale e formatore.


Fonte: Sistemiamo l’Italia

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